Verità e giustizia a prova di coraggio. Con un elefante nella stanza
«Il coraggio, uno non se lo può dare».
Nulla di trascendente nella flebile auto-giustificazione di don Abbondio per non aver celebrato il matrimonio fra Renzo e Lucia – avendo piegato la testa dinanzi all’intimidazione (“pena la vita”) ricevuta da “gente che ha la forza” – durante il colloquio chiarificatore con il cardinale Borromeo che lo sottopose ad una rigorosa ri-presa di coscienza dei doveri del proprio stato, con il memento che «il soffrire per la giustizia è il nostro vincere». (“I Promessi Sposi”, Cap. XXV)
Eh, sì: il coraggio non può darselo chi non ce l’ha, nemmeno su incitamento da parte di “maestri” più o meno “illuminati” (o presunti tali) e/o autorevoli.
Il coraggio, infatti, ha la sua radice – non solo verbale – nel cuore, organo vitale anche per i sentimenti e le virtù che in esso albergano e si temprano, sia grazie alle doti innate che alle esperienze maturate, e con il contributo non trascurabile dell’esempio trasmesso da testimoni autentici. E non per merito di messaggi il più delle volte retorici, ed oltre tutto non risolutivi di condizionamenti pur reali, troppo spesso per colpevole negligenza e in concorso di responsabilità tradite.
Condizionamenti, quasi sempre finemente dissimulati, che insidiano e frenano i meno corazzati in fatto di coraggio e si rivelano estremamente infausti quando incidono sul complesso sistema per l’accertamento della verità e sugli ingranaggi della giustizia.
Non per nulla Sant’Agostino diceva: «La verità è come un leone. Non avrai bisogno di difenderla. Lasciala libera. Si difenderà da sola».
Ancor di più alla luce di tale insegnamento, mi trovo in difficoltà nell’intendere l’affermazione – che coniuga la verità con il coraggio – di papa Bergoglio contenuta nel discorso letto da un suo collaboratore, a causa dei noti e ricorrenti problemi di salute, in occasione dell’inaugurazione del 95° Anno Giudiziario del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, il 2 marzo scorso.
«Occorre coraggio – è la sottolineatura di cui non riesco a cogliere l’esatta sfumatura – per andare fino in fondo nell’accertamento rigoroso della verità, ricordando che fare giustizia è sempre un atto di carità, un’occasione di correzione fraterna che intende aiutare l’altro a riconoscere il suo errore. Ciò vale pure quando emergono e devono essere sanzionati comportamenti che sono particolarmente gravi e scandalosi, tanto più quando avvengono nell’ambito della comunità cristiana».
Perché il richiamo al coraggio dinanzi a uditori che hanno votato in scienza e in coscienza la loro vita professionale alla ricerca della verità, presupposto ineludibile nell’esercizio della giustizia?
Con la mente lucida mi riconnetto all’aforisma della vignetta, attribuito al Vescovo d’Ippona, che ho scelto per questo Post. Puntando al sottinteso preferibile della concretezza del coraggio volto a cambiare le cose che indignano l’altro figlio della speranza, in modo che i fratelli possano riconciliarsi e convivere serenamente, al compimento di quell’”atto di carità” che, nell’enunciato del papa, consiste nel “fare la giustizia”. E: così sia!!!
Poiché è utopistico pensare che basti la speranza a cancellare dalla faccia della terra la mala pianta della vigliaccheria e di ogni sorta di meschinità, pur non allontanando l’attenzione dai tantissimi don Abbondio, con onestà intellettuale bisognerebbe non far finta di non vedere i non pochi – fra quelli facilmente riconoscibili e quelli che si aggirano sotto mentite spoglie – don Rodrigo che, in ogni società compresa quella contemporanea, rappresentano un macigno nel percorso ad ostacoli per la conquista e la gestione del coraggio.
Il tutto all’ombra della fitta rete di complicità e connivenze che, avvolte nella cappa di omertà e cinismo, per tornaconto personale e/o per quieto vivere, alimentano il novero, rafforzandolo, della “gente che ha la forza”, e la crescita esponenziale del numero dei codardi e dei menefreghisti.
Un sistema di vasi comunicanti in cui ad essere sotto pressione è in primis il coraggio.
Ove mai i don Abbondio di ogni tempo – in stato di conveniente servilismo – al pari dell’omonimo di manzoniana memoria, prendessero almeno l’abitudine di balbettare apertis verbis la motivazione del loro comportamento, non solo darebbero vita ad una labile apparenza di coraggio, ma soprattutto farebbero cadere le maschere di molti signori di questo mondo e di insospettabili che fanno il bello e il cattivo tempo.
Contribuendo ad infrangere un circolo vizioso dal quale non si esce con la ridondanza di parole, per lo più inconcludenti, se non addirittura mistificanti.
Valida restante, infatti, la realistica e disinvoltamente disattesa puntualizzazione di Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, – dicevamo lo scorso anno a un gruppo di laici [Discorso ai Membri del «Consilium de Laicis» (2 ottobre 1974)] – o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». (“Evangelii Nuntiandi”, 8 dicembre 1975, n.41)
La parola “coraggio!” è di quelle più facilmente pronunciate dai facenti funzione di samaritano per caso, privi di empatia, e quasi sempre accompagnata da moralistiche lezioncine sulla “croce”, che rivelano con la mancanza di sensibilità la scarsissima conoscenza, se non la totale ignoranza, di quel calvario ingombro di croci insopportabili, caricate da sepolcri imbiancati e dottori di Legge che non toccano quei pesi “nemmeno con un dito”. (cfr. Lc 11, 42-46)
Che ne sa del coraggio di vivere in condizioni del genere chi – forse anche toccato da qualche accidente comune ai miseri mortali – non ha sperimentato sulla propria pelle (e buon per lui-lei!) le conseguenze di ingiustizie cadute nel dimenticatoio, ma che – grazie a Dio! – non vanno in prescrizione per il diritto divino e che, a tempo debito, sanerà l’unico Giudice infallibile, come promesso?
Per Benedetto XVI «L’ingiustizia, il male come realtà non può semplicemente essere ignorato, lasciato stare. Deve essere smaltito, vinto. Solo questa è la vera misericordia». (in “Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme alla resurrezione”)
Un altro passaggio di quest’ ultimo volume della trilogia su “Gesù di Nazaret” del papa teologo mi illumina nei voli pindarici della mente intorno al tema nodale della verità strettamente collegata alla giustizia, agevolandomi l’introduzione al clima pasquale in cui stiamo per immergerci.
«Che cos’è la verità?» (Gv 18,38).
E: «Che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti – criteri sottratti all’arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la liberazione?».
Sono domande che si pone, e a cui risponde, Papa Ratzinger nel volume citato al capitolo “Gesù davanti a Pilato” (pp. 213-219).
Sono domande che nemmeno sfiorano la mente, e ancor meno la coscienza, nemmeno di fronte a casi eclatanti di ingiustizia, dei vari Pilato di ogni tempo, anime gemelle dei più modesti don Abbondio, che in fatto di “pilatismo” hanno superato il maestro.
«Che cos’è la verità?». Il prefetto della Giudea, annota Benedetto XVI – accantonò «questa domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile», e voltò le spalle alla conoscenza della missione di Cristo sulla terra, che è stata quella di «dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce», come dall’ultima dichiarazione resa dal Nazareno, prima di porre fine all’interrogatorio cui lo aveva sottoposto.
«Il potere umano – sottolinea il papa tedesco – difatti, teme fortemente il confronto con la verità perché la sua luce fa emergere le tenebre e i cancri del potere: corruzione, carrierismo, ingiustizie, sopraffazioni, ricatti, bramosia di denaro».
Quanti allievi si specializzano, alla scuola e sotto l’ombrello di tali detentori del potere, nell’arte di tradire la causa della verità, rinunciando a perseguirla e/o restando indifferenti per i soprusi e le ingiustizie!!!
E: al coraggio non resta che alimentarsi fra le braccia materne della speranza.
Maria Michela Petti
21 marzo 2024