Parole che non m’inteneriscono il cuore
Senza aver sperimentato sulla sua pelle il peso delle critiche gratuite rivolte a Lucia, dagli abitanti del paese dove avevano deciso di stabilirsi, dopo aver celebrato quel matrimonio soltanto a morte accertata di don Rodrigo che lo aveva contrastato in ogni modo, Renzo – che non si era mai trattenuto dal facile sentenziare, anche se era «diventato disgustoso (riconosce il Manzoni; cap. XXXVIII de “I Promessi Sposi”) a forza d’esser disgustato» – cambiò registro. «Allora s’accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi, e prese un po’ più d’abitudine d’ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle».
Non è da tutti rientrare in sé stessi e, ancor meno frequente, dar prova di conformità al nesso logico fra il dire e il fare. Lo afferma, senza tema di smentita, il ben noto proverbio che corre di bocca in bocca.
Nella mia mente hanno preso a rincorrersi pensieri all’ordine del giorno per la verità, ma con maggiore intensità, non appena mi sono soffermata sulla parte conclusiva della catechesi sviluppata dal papa intorno ad un brano della Lettera ai Galati, durante l’udienza generale di oggi (3 novembre).
La ripropongo in tutta la sua interezza.
«In effetti, quando siamo tentati di giudicare male gli altri, come spesso avviene, dobbiamo anzitutto riflettere sulla nostra fragilità. Quanto facile è criticare gli altri! Ma c’è gente che sembra di essere laureata in chiacchiericcio. Tutti i giorni criticano gli altri. Ma guarda te stesso! È bene domandarci che cosa ci spinge a correggere un fratello o una sorella, e se non siamo in qualche modo corresponsabili del suo sbaglio. Lo Spirito Santo, oltre a farci dono della mitezza, ci invita alla solidarietà, a portare i pesi degli altri. Quanti pesi sono presenti nella vita di una persona: la malattia, la mancanza di lavoro, la solitudine, il dolore…! E quante altre prove che richiedono la vicinanza e l’amore dei fratelli! Ci possono aiutare anche le parole di Sant’Agostino quando commenta questo stesso brano: «Perciò, fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, […] correggetelo in questa maniera, con mitezza. E se tu alzi la voce, ama interiormente. Sia che incoraggi, che ti mostri paterno, che rimproveri, che sia severo, ama» (Discorsi 163/B 3). Ama sempre. La regola suprema della correzione fraterna è l’amore: volere il bene dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Si tratta di tollerare i problemi degli altri, i difetti degli altri in silenzio nella preghiera, per poi trovare la strada giusta per aiutarlo a correggersi. E questo non è facile. La strada più facile è il chiacchiericcio. Spellare l’altro come se io fossi perfetto. E questo non si deve fare. Mitezza. Pazienza. Preghiera. Vicinanza».
Ritengo superfluo ogni mio commento alla luce della ben nota vicenda, esposta a grandi linee su queste pagine, e dell’esperienza surreale che ci siamo trovati a vivere.
Nella ridda di pensieri che ha scatenato in me la lettura che ha catturato non piacevolmente – sia chiaro – la mia attenzione, si è imposta la condanna consolatoria dell’ipocrisia (Mt 23, 3-5), che muove dagli stessi verbi del proverbio sopra citato: «non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange…».
E: mi si è presentata vivida l’immagine icastica descritta da Flaubert in “Madame Bovary”: «La parola umana è spesso come un pentolino di latta su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi, mentre vorremmo intenerire le stelle».
Maria Michela Petti
03 novembre 2021