L’Immacolata fra dogma e fantasia cinematografica
“Io sono l’Immacolata Concezione”, rivelò la Vergine alla sedicesima apparizione a Bernadette, presso la Grotta di Massabielle, il 25 marzo 1858 nel giorno della Festa dell’Annunciazione.
Definizione dogmatica, proclamata l’8 dicembre 1854 da Pio IX con la Costituzione Apostolica “Ineffabilis Deus”, che la pastorella quattordicenne non conosceva, digiuna com’era allora di nozioni catechetiche e scelta – come riconoscerà più tardi lei stessa – «perché sono la più ignorante».
Questo il presupposto che diede credibilità a quanto da lei riferito relativamente alle precedenti apparizioni, durante le quali la Madonna si era unita a Bernadette nella preghiera del rosario, raccomandandone la pratica per la salvezza dei peccatori.
Poetica la presentazione dell’Immacolata fatta da Giovanni Paolo II all’ Angelus dell’8 dicembre 2003.
«Se Cristo è il giorno che non conosce tramonto, Maria ne è l’aurora splendente di bellezza».
Splendore che illumina non solo il tempo annuale di preparazione in attesa del Natale, ma – passo dopo passo – tutto il cammino incontro al Signore.
Se la mente umana non può comprendere il prodigio della Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, «è la fede a rivelarci» – ribadì Papa Wojtyla, ora Santo – il mistero del Suo essere “piena di grazia”, come la salutò l’Angelo annunciandoLe la sua divina maternità e a ricordarci «che, in forza della sua singolarissima condizione, Maria è nostro sostegno incrollabile nella dura lotta contro il peccato e le sue conseguenze».
Certo: in questo nostro tempo, in cui tutto viene rivisto e adattato allo “spirito” della cultura moderna – inclusa la libera interpretazione del concetto di peccato e del perdono inteso come “diritto di tutti” – non stupisce che sia stato accolto senza suscitare indignazione, ovviamente nel mondo ecclesiale, anestetizzato anche dall’assoluto silenzio dei media mainstream sul fantasioso prodotto cinematografico che è il film Sky Original di Paolo Zucca “Il Vangelo secondo Maria”, presentato fuori concorso al Torino Film Festival, conclusosi il 2 dicembre scorso.
Film che sarà nelle sale cinematografiche la primavera prossima e che ha fra gli sceneggiatori la scrittrice Barbara Alberti, autrice dell’omonimo romanzo del 1979.
Ah, il passato! Tanto vituperato per ciò che concerne molti dei suoi aspetti socioculturali e religiosi, quanto utile per le rivisitazioni che tornano utili per scopi ben precisi, secondo la mentalità del tempo corrente.
A scanso di equivoci: la mia non è una critica a detto film in quanto espressione artistica e lungi da me la tentazione di violare la libertà di pensiero altrui. È soltanto una personale osservazione, nel rispetto paritario della medesima libertà e della manifestazione verbale.
Non so quanto possa – nell’oggi, tra l’altro fin troppo compromesso dallo scontro e dalle difficoltà a stabilire o ristabilire rapporti di equilibrio fra i generi – risultare preziosa, per la causa della complicatissima “questione femminile”, la rappresentazione di «una Maria di Nazareth mai vista prima, pagana, ladra, selvaggia e femminista e soprattutto una donna che non è affatto contenta del suo destino e non manca a dire a Dio in persona: “Perché proprio a me?”». (Fonte ANSA, 26 novembre 2023, 18:41)
Un modello di donna realizzato, per farlo risultare altamente convincente e seducente, attraverso lo stravolgimento della figura di Maria, quale è nel Depositum Fidei, rinunciataria del Suo ruolo primario di collaboratrice al piano salvifico dell’umanità, a partire dal Suo “Fiat”.
«Il piano di Dio – si legge, infatti, nel lancio della pellicola su sky- tg24 – non coincide con quello di Maria». Perché il sogno coltivato dalla protagonista è quello del riscatto dall’ignoranza, dell’autodeterminazione e dell’indipendenza. Sogno che «pare potersi trasformare in realtà grazie all’incontro con Giuseppe, maestro e complice che segretamente la istruisce e la prepara alla fuga. Ma quel matrimonio casto, quella sorta di paravento, viene incendiato dal fuoco della passione. Maria e Giuseppe si innamorano e sono pronti ad abbandonarsi al desiderio. Solo che l’improvviso palesarsi dell’angelo dell’annunciazione sconvolge la coppia».
La scrittrice Alberti – come riportato dall’ANSA – candidamente ha svelato l’obiettivo che si era fissato scrivendo l’omonimo romanzo: «Ho scritto questo libro nel 1979 al solo scopo di far sorridere la Madonna. Viene sempre rappresentata come una serva assoluta che per destino dovrà solo piangere e partorire senza conoscere uomo. Insomma, l’indicazione che veniva data alle donne era piangere.
Credo che noi donne possiamo essere qualcosa di più di una figurina del dolore» è la sua categorica asserzione.
Davanti alle scene strazianti di dolore – che colpisce indifferentemente uomini e donne di ogni età, in ogni tempo, e per gli accidenti più disparati – a me (senza voler imporre il mio punto di vista) suona offensivo, soprattutto per la stessa donna, la sua riduzione ad “una figurina del dolore”, oltre che motivo in più discriminante che non aiuta il superamento della conflittualità in atto fra i generi, che anzi la inasprisce. Sempre per come la vedo io.
E, riconfermo la riflessione che in occasione della Festività dell’8 dicembre dell’anno scorso avevo affidato a queste pagine, anche se non nego la difficoltà di mettere in pratica la “lezione” della Maria del Vangelo che ho conosciuto fin dall’età della ragione.
Maria Michela Petti
08 dicembre 2023