Pensieri in bottiglia
Mia cara, perfetta, sconosciuta
scrivo più che a te, per me.
Per cercare di riordinare pensieri confusi che mi agitano mente e cuore. Non indifferente ai drammi che si consumano in solitudine, inimmaginabili fino all’atto – non infrequente – che li trasforma in un fatto di “cronaca” nera.
Scrivo, senza pretese, per te
isolata nel tuo mondo, popolato da ricordi che si sono trasformati in fantasmi e da pensieri che ti incatenano in un’assenza che ti ha ridotto a fantasma.
Tu, e soltanto tu, puoi dar voce al tuo dolore «perché è più dolor, se tace», imprigionato per un meccanismo di autodifesa, opinabile seppur comprensibile, dietro quella porta chiusa dal di dentro. Impenetrabile il segreto che nascondi persino allo sguardo che non sia di un essere chiuso a sua volta nei confini del suo ego e intento a strappare solo le erbacce che spuntano nel recinto circoscritto al suo mondo, ben protetto da sistemi di sicurezza a prova di attacchi da parte di sconosciuti.
Chiusa la porta del tuo cuore, per motivi che tu – e solo tu – conosci e che mi impongono di rispettarli e rispettarti, intendo risparmiarti parole di circostanza, abusate soprattutto in giornate come l’odierna (25 novembre) impostata su un obiettivo più che enfatico rispetto alla gravità del fenomeno: l’eliminazione della violenza sulle donne. Rituale, per quanto pertinente, non determinante per la soluzione di una problematica ingarbugliata oltre ogni considerazione. Col rischio di passare per un velato modo di assolvere la coscienza collettiva dall’incapacità di starti a fianco nei momenti e nella misura delle tue esigenze.
Da questa mia osservazione, realistica e priva di ogni intento moraleggiante, sono escluse, ovviamente, tutte quelle persone che in modo o nell’altro si occupano e preoccupano dei problemi che ti riguardano, ogni santo giorno. Pur se impotenti a sanare, con le scarse risorse a loro disposizione, spesso frutto del loro stesso impegno, quella piaga sociale che si manifesta in tutta la sua drammaticità quando disvela le ferite sul corpo di una donna, quasi “per caso”.
Risorse e mezzi, in tutta evidenza, inadeguati per la risoluzione di uno dei capitoli della questione femminile troppo complessa per essere lasciata in carico soltanto a quei pochi o tanti che non voltano la faccia dall’altro lato.
Persone che percepiscono il tuo disagio cogliendo segnali il più delle volte irrilevanti, perché dotate di empatia o di quel comunemente chiamato “sesto senso” che non tutti possono vantare, e non sanno più cos’altro inventarsi per infrangere quel muro di isolamento, che ti condanna volente o nolente alla solitudine.
Persone con l’orecchio sviluppato ad ascoltare quella voce interiore che le richiama al dovere morale di attivarsi, secondo le proprie capacità e disponibilità, senza arrendersi alle difficoltà sociali avverse al proprio quieto vivere, e resistendo alla diffusa tendenza a fregarsene per non appesantire il bagaglio delle personali fatiche quotidiane, per cercare invece di alleggerire il peso esistenziale troppo grave per qualcuno che non riesce nemmeno a chiedere aiuto.
Persone che presentono, a distanza più o meno ravvicinata, l’eco del rumore di un cuore stremato, chiuso in un silenzio larvato, paragonabile a quello di una conchiglia, sulla quale un dì si erano appuntati occhi bramosi di farne un cammeo e finita, senza curarne la conservazione, fra le cianfrusaglie di una collezione appagante l’istinto di possesso per colmare un ipotizzabile vuoto interiore.
Ascoltala tu per prima l’eco del tormento del tuo cuore, cara sconosciuta. E liberala dalla paura del soffocamento, che ha già soffocato la tua volontà di vivere la vita che capisci esserti negata.
A te e a tutte quelle che, come te, hanno perso la speranza di essere ascoltate e capite, è rivolto il mio pensiero che vi vorrebbe strette in un abbraccio di solidarietà concreta, sfrondata da parole astratte e annunci di impegni troppe volte ventilati e purtroppo non praticati nella misura dovuta, per una serie di fattori negativi.
Pensiero che traduco in un augurio, facendo mia la convinzione di Cesare Pavese. «Le cose si ottengono quando non si desiderano più». (da “Il mestiere di vivere”)
Già: il “mestiere di vivere”! Non facile per i comuni mortali; per chi più e per chi meno. E neanche facile da teorizzare.
Rende bene l’idea, pur nella sua sgrammaticatura, il modo dire: “nessuno nasce imparato”.
Come tutti i mestieri, quello di vivere si impara soltanto nel laboratorio della vita. Dove: esperienza dopo esperienza, per quanto dure e sfiancanti, ci si allena a non perdersi dietro teorie aride per non perdere il desiderio di vivere con e per l’essere che si è. A non perdere anche il desiderio di quel qualcosa a lungo cercato e/o rubato o negato. Oltre ogni speranza.
La stessa che ha spinto molte a denunciare i soprusi patiti e restare spesso inascoltate. Speranza che non ha diritto di spegnere soprattutto chi a parole si mostra paladino delle vittime di violenza di varia natura.
- Nel mondo ecclesiale, bussa alla porta il passaggio dalle parole ai fatti sul “caso Rupnik”
Non casualmente il mio pensiero corre, a questo punto, alle vittime di abusi da parte dell’ex gesuita Marko Ivan Rupnik, destinatario nel 2020 di una scomunica (a stretto giro cancellata e ciò, finora, senza alcuna spiegazione) da parte dell’allora Congregazione, ora Dicastero della Dottrina per la Fede.
Non mi dilungo su questa squallida vicenda, oggetto di riflessione in vari Post precedenti, se non per soffermarmi sul chiaro e legittimo “desiderio” – di più: bisogno – di verità e giustizia, cui non hanno rinunciato le denuncianti (peraltro: da decenni!), per le quali dovrebbe essere vicin(issim)o il momento del rispetto di questo loro sacrosanto diritto. Dacché il papa, il mese scorso – dopo le turbolenze mediatiche scatenate dalla notizia dell’incardinazione del mosaicista sloveno nella sua diocesi d’origine – ha deciso, con una mossa a sorpresa, la revisione “del caso” presso lo stesso Dicastero.
Non solo. Ricevendo sabato scorso, 18 novembre, i partecipanti al I Incontro nazionale dei Servizi e dei Centri di ascolto territoriali per la tutela dei minori e dei più vulnerabili, promosso dalla CEI, Bergoglio ha anche riaffermato l’impegno – ripetendo uno dei proclami del decennio del suo pontificato – che “nessun silenzio o occultamento può essere accettato in tema di abusi”. «Questa non è materia negoziabile» ha aggiunto, prima di insistere sulla necessità di “perseguire l’accertamento della verità e il ristabilimento della giustizia all’interno della comunità ecclesiale, anche in quei casi in cui determinati comportamenti non siano considerati reati per la legge dello Stato, ma lo sono per la normativa canonica».
Obiettivo che si raggiunge – ha sottolineato – muovendo dall’”ascolto del dolore” delle vittime, testimoniando vicinanza ad esse per curarle adeguatamente. Perché: «La “cura” delle ferite è anche opera di giustizia».
Opera di giustizia che attendono veda la luce al più presto le abusate dal presbitero Rupnik e con esse quanti nella Chiesa sono rimasti sconcertati da questa vicenda dagli aspetti dissacranti.
Per non dire delle altre…
Maria Michela Petti
25 novembre 2023
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne