Lettere. Ce n’è per tutti i gusti
Non amo indulgere a celebrazioni che si rinnovano ciclicamente, specie se all’insegna di un cliché inconsistente ai fini dell’obiettivo prefissato. Ma: oggi, nella vigilia della festa delle donne, mi concedo un’eccezione e mi lascio trasportare dai ricordi.
8 marzo 2018. Una data che mi si è impressa nella mente perché collegata ad una lettera rimasta nella memoria inesplorata di un computer. Una lettera che nell’intenzione dell’autore, della cui sincerità non ho motivi per dubitare, avrebbe dovuto sortire l’effetto tristemente naufragato, ma – nonostante ciò – inseguito tuttora, per la soluzione del “caso Hasler”. La terza lettera che quella persona era determinata a far consegnare brevi manu al papa, insistendo in un’azione avviata con colloqui – rimasti infruttuosi – con vari soggetti coinvolti per responsabilità oggettive nella vicenda, al fine di appurare innanzitutto la verità, per poterla ristabilire in maniera inequivocabile e arrivare a dare una svolta positiva alla vicenda con la collaborazione di quegli stessi “attori”, anche «nell’interesse della Chiesa» come da sua convinzione.
Una lettera che volle leggermi, nonostante le mie rimostranze validate dai precedenti, numerosi, tentativi falliti, per correggere eventuali inesattezze. Non ne ricordo le parole, ma ricordo l’inappuntabile e sorprendente – per me – durezza dell’argomentazione, avallata con richiami evangelici ineludibili e ammonimenti di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù.
Come concordato, dopo aver girovagato per alcune ore per le strade del centro con l’animo altalenante fra lo scetticismo verso quell’ennesimo tentativo e il desiderio ancora più forte di non dover soffrire troppo per un’altra temuta delusione, al rientro a casa comunicai per mail i link ai primi articoli di stampa che avevano informato della “cacciata”, così da poter essere segnalati con precisione nella missiva che l’autore era fermamente intenzionato ad inoltrare.
Soltanto qualche giorno dopo, quella persona – che si era offerta addirittura, per soddisfare un mio intimo desiderio, di restituire il quadro della Madonna con la pergamena firmata dal papa, ricevuti al termine dell’Anno della Misericordia da tutti coloro che si erano impegnati per la buona riuscita dell’evento – con un messaggio mi annunciò di averci ripensato e, pertanto, aveva preferito rinunciare al proposito per evitare a noi ulteriori complicazioni.
Una motivazione per nulla convincente e in apertissimo contrasto con il comportamento e la determinazione fino a quel momento dimostrati. E non mancai di esternare la mia incredulità durante l’ultimo incontro, ricevendo conferma al mio sospetto. Sì: l’intermediario, con il quale aveva intrattenuto un rapporto di frequentazione e di scambio epistolare, del quale si fidava ciecamente, e che aveva consegnato (o avrebbe dovuto consegnare. Stando ai risultati, non credo sia peregrino questo mio dubbio) le precedenti due lettere al papa, non aveva risposto all’ultima sua richiesta.
L’ intermediario è la stessa persona che gli aveva accordato un colloquio il 31 dicembre 2017, dal quale contava di ricevere “il dono di una lettera”, come mi aveva confidato con la solita premura nel tenermi aggiornata sui passi che faceva. Lettera mai pervenuta. Non mi aveva precisato che tipo di lettera si aspettasse; suppongo facesse affidamento su referenze che permettessero ad Eugenio di superare insormontabili ostacoli nella ricerca di un nuovo lavoro. Veri e propri macigni data la personalità che lo aveva rimosso dal posto di lavoro, con il clamore mediatico che ne era seguito.
L’intermediario è la stessa persona che il 22 agosto 2018, forse per “chiudere la pratica” spinosa e bollente, fra i numerosi impegni, si era ritagliato – per sua autonoma decisione – del tempo da dedicare a mio marito, dopo una pressante ricerca e una serie di telefonate andate a vuoto nei giorni precedenti, da noi tutti trascorsi a migliaia di chilometri di distanza, godendo dei meritati riconoscimenti ottenuti dal secondo figlio per il suo impegno nell’ambito del dottorato di ricerca. Ed anche in questa occasione fece balenare la disponibilità a scrivere una lettera, ma – attenzione! – «quando avrà trovato un’occupazione», precisò. Vale a dire: a babbo morto? Bah! Chi riesca a individuare l’utilità di questa singolare offerta è veramente bravo. Io mi chiamo fuori…
Per non tralasciare proprio nulla: la promessa spontanea – e abortita – di una lettera, in uno slancio ingannevole di bontà, aveva accompagnato pure il siluramento. Un’altra “pia” intenzione, a fronte di mai avanzate richieste del genere da parte dell’interessato e nostra, e delle sollecitazioni – ovviamente disattese – a rimediare alle conseguenze della gogna mediatica e ad istruire un regolare processo.
Dal momento che mi sono immersa in questo amarcord, aggiungo qualche altro dettaglio. Animato da quella che per lui significava compassionevole premura, l’intermediario si preoccupò di farmi recapitare il seguente messaggio pacchianamente consolatorio, verosimilmente un subdolo invito alla supina rassegnazione, con la premessa di essere consapevole che certamente non mi avrebbe fatto piacere: «nulla si può, quando il vetro è rotto».
Come sarebbe a dire? Con quale (in)sensibilità si osa paragonare la vita di un giovane ad un vetro rotto, senza che paghi chi ha causato quella “rottura”? Se tale è la (in)capacità di infondere speranza a chi è nella sofferenza, non ci si meravigli se non trovano risposta adeguata certi appelli ai governi a rimuovere le difficoltà che soffocano le speranze dei governati.
Infine: pur accogliendo la domanda ingenua di mio marito di parlare con Eugenio per infondergli un po’ di coraggio, la stessa persona fissò la condizione che l’incontro avvenisse «fuori di qua», cioè: fuori dal perimetro vaticano. Tengo a precisare che non esitai a disapprovare animatamente la richiesta di mio marito, nello stesso istante in cui mi informò; e mi astengo dal riportare il mio giudizio sulla risposta ricevuta…
Per il semplice motivo che non ho mai pregato alcun vivente, e mai lo farò, per ottenere ciò che ritengo debba essere fatto per dovere. Non mi sono mai trattenuta, per viltà o per opportunismo, dal segnalare educatamente ma senza ossequiosità tante e tali storture, inimmaginabili, nel corso di decenni, senza sortire il risultato sperato, anzi: pagando un prezzo molto alto al “potere”. Ma: tornassi indietro mi comporterei nello stesso, identico, modo. Mi sono sempre assunta la paternità delle mie azioni, mettendone in conto le conseguenze, peraltro apparse inconfondibili fin dalla prima volta, quando agii, senza tentennamenti, in base ad una formazione che mi ha portato a fare del rispetto delle regole e della coerenza l’ideale da onorare giorno dopo giorno, senza mai scendere a compromessi, convinta che tale fosse lo standard di vita soprattutto nell’ ambiente in cui mi sono trovata a trascorrere lunghissimi, troppi, anni.
Un ultimo dettaglio: sul tavolino del salotto dove si era svolta quella conversazione c’era una cartella contenente una copiosa raccolta relativa al “caso Hasler” che l’interlocutore tenne a mostrare a mio marito, come a dire che era perfettamente a conoscenza del “caso”.
Lettere. In quella cartella che si voleva forse archiviare frettolosamente, dopo oltre un anno dal giorno memorabile.
Lettere. Che sono una costante di questa vicenda, di questa triste storia.
Quelle anonime: che ne hanno avviato, o forse costituito solo un pretesto, e improntato il “processo”, nel senso di sviluppo successivo di quella operazione fino al clou mediatico, architettato con una cura da “addetti ai lavori” tale da completarla con il finale premeditato.
Anonima – tanto per non dimenticarne alcuna – anche quella “pro Eugenio” inviata a vari destinatari, e per un motivo che non riesco a spiegarmi fatta arrivare sempre in forma anonima pure a me, ai primi di agosto dello scorso anno. In forma anonima, perché? Per mancanza di coraggio, per paura – motivi comprensibili, questi – per un tardivo quanto inutile ripensamento, o forse perché l’atmosfera che si respira in quegli uffici non è affatto migliorata, nonostante l’irrituale intervento papale, salutato dagli organi di stampa come unica soluzione risolutiva di un problema – si scrisse – che si era aggravato negli anni, a causa dell’autoritarismo esercitato da Hasler? Bah!
Lettere firmate. Tante, e che ancora oggi, a distanza di quattro anni da quel fatidico giorno che ha sconvolto la vita di un ex funzionario vaticano, qualcuno che, pur non essendo membro della famiglia, continua ad indirizzare a Santa Marta, non rassegnandosi (come noi) all’ingiustizia perpetrata ai danni di un giovane, “cacciato” su due piedi, senza nemmeno una lettera di licenziamento.
Eccola la lettera che manca all’appello!
Chissà se qualcuno si sia mai presa – si prenda ancora – la briga almeno di leggerle, prima di nasconderle in un limbo segreto. L’unico risultato certo è che restano tutt’ora senza risposte.
A chi ha voluto regalarcene copia, rinnovo, a nome di tutti noi, il più sentito ringraziamento per l’umana vicinanza, per la stima e l’amicizia rimaste intatte, anzi: persino rafforzate.
Fra quelle firmate, mi permetto segnalare la mia Lettera aperta al Papa, scritta nella notte fra il 5 e il 6 aprile 2017. La notte del terremoto mediatico che devastò le nostre vite, quando la notizia prese ad inondare il Web, perché qualcuno insofferente del silenzio delle bocche cucite, protrattosi per nove giorni, non riuscendo più a contenersi e a contenere l’ansia decise di completare l’opera lasciandola “filtrare”, con il tacito permesso di chi non intervenne per condannare e bloccare quel massacro.
Lettera aperta che un altro gentile – si fa per dire – offerente mi si era dichiarato disponibile a consegnare personalmente al papa, dopo aver lasciato trascorrere qualche settimana, vantando una perfetta conoscenza del suo carattere e dei suoi tempi di reazione.
Lettera aperta che, se avessi accettato quella proposta, sarebbe finita nel vuoto al pari delle numerosissime altre, mentre, divulgandola in prima persona, almeno ha ricevuto una qualche attenzione come da riscontro catturato dalla Rete.
Abituata a mantenere la parola data, in forma orale e scritta, vinta quella notte l’innata riservatezza e la naturale ritrosia, che nel corso di decenni hanno caratterizzato il nostro stile di vita, mai sfiorato dalla tentazione di sfruttare a nostro vantaggio le non poche occasioni che ci si sono presentate, e di cogliere al volo momenti propizi di visibilità, ho iniziato non senza sforzo a rispettare l’obbligo morale che la situazione determinatasi mi ha imposto e l’impegno che ho assunto con me stessa, peraltro messi nero su bianco nella medesima Lettera aperta.
Le denunce fin qui offerte all’opinione pubblica, cui si aggiunge la presente, servendomi anche dei mezzi di comunicazione di ultima generazione, che mai in precedenza mi ero sognata di arrivare ad utilizzare, ne costituiscono conferma, valida anche in riferimento alle molte altre indirizzate privatamente ai diretti interessati.
Maria Michela Petti
07 marzo 2021