La Lezione che ho imparato da Benedetto XVI
Due immagini simboliche, associate al lungo addio di Papa Benedetto XVI al mondo dei suoi ultimi dieci anni di vita terrena, resteranno impresse nella memoria, mia di certo, e forse in quella di chi ha seguito con particolare interesse gli eventi legati alla Sua rinuncia al pontificato e alle esequie solenni, sebbene in tono minore per sua espressa volontà.
Una è di un fotoreporter ANSA, rimasto per quasi quaranta minuti sotto la pioggia – precisò – per catturare, a corredo del racconto di quella storica giornata, il fulmine che si abbatté sul Cupolone l’11 febbraio 2013, a poche ore di distanza dall’annuncio sorprendente che aprì una fase di vita ecclesiale che ha aperto nuovi scenari e introdotto interrogativi che soltanto col tempo – si spera – troveranno risposte esaustive.
L’altra, quella fissata dai canali TV italiani ed esteri che hanno trasmesso in diretta la celebrazione dei funerali del Papa Emerito, il 5 gennaio scorso (2023), in Piazza San Pietro, sullo sfondo della Basilica rimasta avvolta in una fitta nebbia per quasi tutta la durata della messa esequiale. Mentre sulla bara è rimasto aperto l’evangeliario. Nessuna folata di vento lo ha chiuso, come era successo in occasione del rito celebrato in morte di San Giovanni Paolo II (8 aprile 2005), quasi a significare – allora – la fine di un ciclo storico.
La nebbia del giorno che ha consegnato alla storia il passaggio alla vita eterna dell’ultimo (per ora) Papa europeo, Benedetto XVI, non ha nemmeno sfiorato quel Libro che resta faro di luce nell’oscurità, anche nelle non infrequenti “notti della fede”. Guida della “via, verità, vita” (Gv 14,6) che il Papa teologo ha illustrato con la sua intensa attività di scrittore e con la testimonianza di coerenza assoluta, lasciando un messaggio tangibile del suo servizio alla Verità, in fedeltà al motto episcopale: “Cooperatores Veritatis”.
Mai che abbia posto la sua persona al centro dell’attenzione. Sempre e solo il Signore, cui ha rivolto il suo “ti amo”, con il filo di voce che gli era rimasto poche ore prima del trapasso, come è stato riferito dall’infermiere che lo aveva assistito durante quell’ultima notte.
Mai che abbia attirato sul suo “io” l’attenzione dei media. E, per questo motivo, risultano ancor più commoventi e coinvolgenti le testimonianze rese post mortem da quanti hanno avuto modo di conoscerlo e di amarlo in vita. Tanti, tantissimi, oltre ogni aspettativa, almeno mia. Tutti ammirati per la sua tenerezza mai ostentata e mai pubblicizzata e per l’attenzione riservata a chiunque abbia avuto modo di avvicinare, sempre con la massima discrezione e delicatezza. Mi ha colpito come sia riuscito lui, così schivo e dall’apparenza così poco socievole, a penetrare in misura così sorprendente nel cuore della gente comune.
Anche io/noi ho/abbiamo ricordi personali della sua vicinanza, specialmente in due precisi momenti particolari della nostra storia familiare, risalenti al 2007 (quando sarebbe bastato un nulla per finire “in cronaca”) e al 2009 (in occasione di un incontro privato). Ricordi che custodiamo rispettosamente e gelosamente nel segreto dei nostri cuori e che ci sono stati, ci sono, e speriamo continuino ad essere di conforto nei giorni a venire, nonostante le offese alla nostra dignità personale e familiare, che non ci vengono tuttora risparmiate, senza soluzione di continuità.
Non mi risulta, dalle cronache del passato e dalla considerevole raccolta di notizie seguite alla scomparsa di Benedetto XVI, alcuna denuncia di gesti e/o comportamento da parte sua lesivi in qualche modo della dignità di una qualsiasi persona, o di un suo collaboratore nel servizio prestato presso la Santa Sede.
A tal proposito, il suo segretario privato, mons. Georg Gänswein, finito nell’occhio del ciclone a seguito delle anticipazioni di stampa relative al libro di memorie personali “Nient’altro che la Verità”, da oggi nelle librerie, descrivendo l’organizzazione del lavoro presso l’allora Congregazione per la Dottrina della Fede, al tempo di Ratzinger Prefetto, sottolinea il metodo garbato adottato nelle correzioni di proposte non condivise.
«Sempre rispettoso dei diversi pareri, che ascoltava fino in fondo» – puntualizza p. Georg – senza umiliare «mai nessuno e il risultato finale appariva a tutti il migliore». (pag. 28)
E, nemmeno mi risulta – per quanto di mia conoscenza – che abbia tradito, durante gli anni del suo pontificato, le linee del suo programma di governo della Chiesa ribadite a più riprese. Come nell’omelia pronunciata durante la celebrazione per l’insediamento sulla Cathedra Romana quale Vescovo di Roma (7 maggio 2005 – Basilica di San Giovanni In Laterano).
Questo il passaggio significativo: «Il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge».
Mi consola e mi fortifica la frase, che mi piace sottolineare per ovvi motivi: «Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge».
Grazie, Santo Padre! per averlo solennemente ricordato e per i tratti di umanità che L’hanno contraddistinta in maniera inconfondibile e unanimemente riconosciuta da chi ne è stato testimone.
Umanità che affonda le radici e trova linfa vitale solo in Dio, come ebbe ad affermare l’allora card. Ratzinger nella conferenza (ampiamente citata da Mons. Gänswein, nel libro di memorie sulla sua vita “al fianco di Benedetto XVI) sul tema “L’Europa nella crisi delle culture”, del 1° aprile 2005 a Subiaco, nel Monastero di Santa Scolastica, ricevendo il Premio San Benedetto “per la promozione della vita e della famiglia”.
«Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo diretto verso Dio, imparando da lì la vera umanità». (pag. 58)
Fu questo l’appello forte e chiaro lanciato pochi giorni prima della sua elezione al Soglio di Pietro.
“Vera umanità”. Quella che caratterizza un soggetto nei rapporti interpersonali, sempre e senza discriminazioni di sorta, riscontrabili in troppi fatti balzati – purtroppo! – alla ribalta della cronaca relativa alla vita ecclesiale degli ultimi anni. Con il concorso determinante dei giornalisti, definiti da Flaiano “cuochi della realtà”, dai quali si chiedeva retoricamente: Chi ci salverà?
A mio avviso potrebbe, ad esempio, salvarci chi evitasse doverosamente di strumentalizzare cinicamente questi professionisti, che a loro volta vanno a nozze con il sensazionalismo dello scoop non validato, in uno scambio reciproco di benefici e profitti consolidati.
In tal modo sarebbe depotenziata “l’arma letale” del chiacchiericcio che, negli anni correnti in cui tanto si è tuonato e si tuona contro, sta mietendo vittime, come non mai. E senza che si sani il danno deplorato.
Questione di una gravità inaudita che non si risolve con la “cura” del silenzio, implorato ad ogni piè sospinto. Lezione che non trova applicazione nei fatti, se non – troppo spesso – con la condanna tendente ad imporre il pensiero presunto corretto dei presunti benpensanti, fino all’eccesso della “cura” imposta. Arrivando persino alla censura preventiva di memorie personali, che – bisognerebbe tenere a mente -rientrano nel patrimonio personale di chi se ne fa carico anche pubblicandole, esponendosi al rischio di doverne rispondere (e pagare, in caso di reati accertati) nelle sedi deputate: tribunali e (per quanto ne so, relativamente a libri di religiosi e membri del clero) sezione apposita della Congregazione, ora Dicastero per la Dottrina della Fede.
Tanti sforzi reclama l’obbligo di diradare la “nebbia”, metaforicamente parlando, che avvolge la mente e i cuori degli appartenenti al popolo di Dio. Parlano dati oggettivi e verificabili, non il “chiacchiericcio”, inevitabilmente alimentato dalla confusione che regna sovrana, sotto questo cielo.
«Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere!».
È l’ultima raccomandazione che Papa Benedetto XVI ci ha lasciato nel suo Testamento, di alto valore spirituale nella sua relativa brevità, datato 29 agosto 2006 e pubblicato il 2 gennaio scorso (2023).
Testamento che muove da una serie di ringraziamenti. In primo luogo, al Signore, “dispensatore di ogni buon dono”, che lo «ha guidato attraverso vari momenti di confusione», aiutandolo a risollevarsi non appena si trovava sul punto di scivolare.
E, dopo la richiesta di perdono «A tutti quelli a cui abbia in qualche modo fatto torto», delinea in sintesi il percorso che ha portato Papa Ratzinger alla certezza della “ragionevolezza della fede”, illustrata nelle pubblicazioni e nei ripetuti insegnamenti, e che – afferma – ha visto emergere “dal groviglio delle ipotesi” filosofiche e bibliche.
Per concludere con la professione di fede: «Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita».
Maria Michela Petti
12 gennaio 2023