Cosa manca alla questione “lavoro”?
La risposta che meno – per la sua prevedibilità – e da chi meno mi sarei aspettata l’ho sentita esporre, in estrema quanto mai incisiva sintesi, dal palco del Festival di Sanremo 2024, lì dove solitamente si canta l’“amore” in tutte le sue sfaccettature.
Eppure… “C’è un amore di cui non si parla mai, ed è quello per i nostri diritti: i diritti che ci spettano. Ognuno ha i propri amori, ma anche dei diritti che stanno alla base di una parola che voglio far risuonare qui, perché è molto bella, ed è dignità. Viva la dignità!”
Con questa constatazione Stefano Massini, lo scrittore che porta anche in scena le sue composizioni drammaturgiche, concluse l’8 febbraio scorso il “monologo” in musica, dedicato alle vittime degli incidenti sul lavoro, alternandosi alle strofe del testo cantato da Paolo Jannacci.
Innegabile la mancanza di amore nella misura necessaria ad evitare ogni sorta di dramma e delle più tristi vicissitudini che feriscono l’umanità, in ogni singolo e nel suo insieme. Rispetto alle quali si registrano esternazioni di compassionevole partecipazione che, purtroppo, il più delle volte, lasciano il tempo che trovano.
Un profluvio di parole di circostanza, purtroppo, alla prova dei fatti prive di consistenza. Un paravento a parole al vento.
Che, per restare alla questione “lavoro”, non incidono in maniera risolutiva sulla complessità dei problemi aperti e di stretta attualità soprattutto in momenti topici, quali il susseguirsi di morti per cause connesse al lavoro. O in occasione della celebrazione del 1° Maggio, Festa dei Lavoratori. Quando il pensiero corre sì anche a chi il lavoro lo ha perso, ma che – per il resto dei giorni (fatti salvi gli interventi, pro domo eorum, di politici e sindacalisti) – resta per lo più relegato nella serie B delle morti, perché “bianche”.
Sono state alcune parole – per me evocative di un’ingiustizia inaccettabile oltre che particolarmente significanti – del lungo discorso pronunciato dal Presidente Mattarella, in visita al distretto agro-alimentare del Cosentino il 30 aprile scorso, alla vigilia della Festa citata, a scuotermi dalla decisione di non tornare sull’argomento che mi sta oltremodo e non senza ragione a cuore. Decisione assunta per il persistente far finta di nulla, nella simultaneità dell’applicazione: “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”.
E: di parole che dovrebbero scuotere un certo establishment ne sono state scritte a sufficienza, fino a qualche giorno fa, quando un articolo del 27 aprile scorso, firmato da Damian Thompson, sul sito UnHerd, analizzando il desolante quadro ecclesiastico attuale, ha riproposto il “caso” della creazione di un posto di lavoro ad hoc per un soggetto che ha goduto di “protezioni” in altissimo loco, prima di essere condannato per abusi sessuali nel suo Paese.
Non mi dilungo su questo resoconto non esaltante e non edificante, cui ho accennato soltanto per il riferimento al modus operandi relativamente all’assegnazione di posti di lavori (e non una tantum!) che, in parallelo, ha registrato risoluzioni contrarie ed improvvide di “cacciate” immotivate. Con buona pace di parole strabilianti, ad ogni piè sospinto, su: diritti e dignità delle persone da salvaguardare, con un corollario ben dettagliato di “buoni” consigli per mettere in pratica quella che è e resta una “predica” priva di conseguenzialità testimoniata e realmente formativa.
Parole abusate e fatti in contraddizione fra loro sono schiaffi in faccia alla dignità violentata di mal-capitati alla mercè di qualcosa al di sopra di ogni sospetto. E, perciò ancor più insopportabile.
Alla mercè di qualcosa di ingiustificato e ingiustificabile.
Sono arrivata alla parola “mercè”, per associazione di pensiero, muovendo dalle parole del Presidente Mattarella, estratte dal suo discorso in quel di Cosenza, che mi hanno spinto a questa riflessione.
«Il lavoro – ha detto, fra l’altro, il Presidente – è legato, in maniera indissolubile, alla persona, alla sua dignità, alla sua dimensione sociale, al contributo che ciascuno può e deve dare alla partecipazione alla vita della società. Il lavoro non è una merce».
“Non è una merce”. Il lavoro: un bene valore in sé, dell’uomo e per l’uomo.
In questa affermazione la parola ad effetto – accentuato dalla negazione “non” – con l’accento fonico sulla prima “e” esclude, comunque, ogni contaminazione, grave – gravissima – come l’accento che sulla parola omografa “mercé” ne stravolge il significato e, sostanzialmente, il contenuto semantico.
L’accento grave – spiega la “grammatica italiana” – sta ad indicare la pronuncia “aperta” della parola che lo reca.
Nel caso su cui ho fissato l’attenzione, il “non è una merce” stronca ogni dubbio sulla possibilità di aperture a tentativi di arbitrarietà, di gestione proprietaria e padronale di tutto ciò che include – lavoratori compresi – quel settore del lavoro di cui si è a capo.
Maria Michela Petti
1° Maggio 2024 – Festa del Lavoro