Che tristezza l’essere umano ridotto a “cosa ’e niente”!
Ci sono momenti, anche troppi, nei quali mi torna in mente l’amara ironia sulle difficoltà esistenziali condensata da Edoardo De Filippo nel monologo struggente “È cosa ‘e niente”. (da: Peppino Girella, sceneggiato RAI del 1963).
Sono passati sessant’anni e il sottofondo di amarezza, non declamato e perciò ancor più gravoso, che accompagna gli eventi variamente insostenibili e/o la narrazione che se ne fa, è sempre lo stesso. Declinato nella formula impercettibile di uno stato di prostrazione e di fatalismo davanti alle avversità, specificatamente nei casi di sopraffazione e di prevaricazione ai danni dei soggetti più deboli e indifesi, in posizioni di inferiorità e subordinazione nella scala sociale.
Non occorre che qui riepiloghi la serie abnorme di comportamenti vessatori squadernati dalle cronache, a getto continuo, e in ambiti su cui si appunta lo sguardo reverenziale, a prescindere. Comportamenti messi in atto nell’esercizio di mandati di alto rango, ma che – per tradizione imperitura e/o per prerogative acquisite – risultano inviolabili anche dal diritto di critica, garantendo all’attore di turno una sorta di sacralità che lo pone addirittura al di sopra di ogni sospetto. Anche nell’evidenza di fatti debordanti i limiti della decenza e della coerenza con pronunciamenti di alto valore, profusi – sotto mentite spoglie – in momenti e con modalità particolarmente solenni.
Va da sé che travagli determinati dalle conseguenze di condotte di tal genere sono ben più avvilenti e insopportabili delle angustie, pur pesanti, legate alle vicissitudini di varia natura che comporta la vita quotidiana.
Fra le quali, quelle elencate con drammaticità stringata da Edoardo nel monologo sopra menzionato, che gli ispirarono la mesta constatazione: «Tutte le situazioni così l’abbiamo risolte: è cosa ’e niente, è cosa ’e niente» e la straziante considerazione: «A furia ‘e ddicere “è cosa ‘e niente” siamo diventati cos’e nient io e te».
No. Niente che non sia rispettoso della dignità della persona – di ogni persona! – può essere minimizzata come una “cos’e niente”, nemmeno nel maldestro tentativo di sdrammatizzare una situazione a tasso variabile di gravità.
E, soprattutto, nessuno – e per nessun motivo, mai e poi mai giustificabile – può ridurre una persona, chiunque sia, a “cos’e niente” e, nemmeno vagamente, spingerla ad avvertire la dolorosa sensazione di essere diventata una “cos’è niente”.
Sensazione ben diversa dal sentirsi, in spirito di umiltà, una nullità rispetto all’infinita grandezza del suo Creatore, datore del dono inestimabile della vita che non è merce concessa all’uso e all’abuso, a proprio piacimento, da parte di chi che sia.
Maria Michela Petti
02 dicembre 2023