Dedicato alle vittime inermi sacrificate sull’”altare dell’ipocrisia”
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!».
È la quarta delle sette “maledizioni” con il medesimo incipit: “Guai a voi”, dalla pagina 23 del Vangelo secondo Matteo, esattamente ai versi 23 e 24, che mi è balzata prepotentemente in mente alla lettura, ieri, di una notizia che mi ha molto rattristata, riguardante una persona di mia-nostra conoscenza cui desidero esprimere pubblicamente umana e cristiana solidarietà, facendomi interprete del medesimo sentimento provato da ogni membro della mia famiglia.
Vicini a chi ha patito la stessa sorte, toccata ad Eugenio, sia pure per dei distinguo sostanziali.
Ovvio che ogni “caso” sia un caso a sé.
Quel che ci ha accomunati è la sofferenza causata da un modus operandi, che ha offeso – con la stessa modalità di “allontanamento” dal posto di lavoro – soggetti feriti indelebilmente nella loro dignità umana e professionale, con conseguenze incalcolabili dal punto di vista fisico, psicologico e morale, oltre che materiale. Sofferenza che, inevitabilmente, si è estesa a tutti i membri delle rispettive famiglie, aggravata (se mai non fosse stata, già di per sé, più che difficile da gestire!) dalla grancassa mediatica, che da ieri ha riacceso i riflettori sull’ex comandante della Guardia Svizzera, dott. Daniel Anrig.
A lui, nel caso gli pervenga l’eco di questo modestissimo messaggio, rinnovo anche a nome dei miei familiari la stima immutata, con l’augurio di ritrovare almeno un briciolo della serenità che, come ogni essere umano, si merita.
A tutti i suoi Cari rinnovo i sensi della mia vicinanza, dopo averlo fatto in forma privata ieri, appena appresa la “nuova”. Non avrei potuto non farlo, per la mia natura che non mi ha mai permesso di voltare le spalle a chi è nella prova, tanto più nella giornata in cui si richiamava l’attenzione su un’altra piaga sociale: la violenza contro le donne.
La violenza non fa, e non può fare, differenze; né riguardo al genere, né riguardo alle forme in cui è praticata.
Al di là di ogni altra considerazione su vicende – che sarebbe stata cosa buona e giusta non fossero accadute – quel che non posso e non voglio sottacere è l’ipocrisia che rende il tutto maledettamente insopportabile, con il concorso determinate degli organi di stampa.
Riprendendo la riflessione sul capitolo 23 di Matteo – che reclamerebbe, a mio avviso, una costante meditazione per una traduzione in azioni fruttuose e credibili – colpisce la durezza del linguaggio. E, come avrebbe potuto essere diversamente? A parlare è quel Maestro che ha esortato: “Sia il vostro parlare sì sì, no no.”
Colui che, infatti, dopo aver smascherato scribi e farisei pronti a rimproverare chicchessia per ogni minima trasgressione della legge, incuranti delle mistificazioni verbali – è impuro ciò che esce dalla bocca (cfr. Mt 15,11) – così li apostrofa: “Serpenti, razza di vipere” (23,33), lanciando l’avvertimento circa “la condanna della Geenna”.
Nell’ Inferno dantesco (Canto XXIII) gli ipocriti – abilissimi in vita a destreggiarsi, a correre battendo gli altri – “stanchi e vinti” (dal peso dei cammelli ingoiati?), sono condannati a girare intorno “assai con passi lenti”.
Le maschere abbaglianti, sfoggiate in vita, si sono tramutate in “cappucci bassi” dinanzi agli occhi, sempre dorate di fuori, “ma dentro tutte piombo, e gravi tanto”.
Un fardello… non per i moscerini…
Maria Michela Petti
26 novembre 2022