Quante tele! Fra inganni e sorprese
Si va da quella del ragno che, talvolta, fa capolinea anche nelle dimore più chic a quelle intrecciate da un tessitore insuperabile: il tempo.
E, a coprire l’indeterminabile arco spazio-temporale, manco a dirlo, il variegato ventaglio di tele intessute sulla falsariga del leggendario escamotage ideato da Penelope.
Il primo tratto di lapalissiana evidenza che accomuna queste produzioni – con finalità diverse e col comune denominatore: il proprio interesse – è la pazienza da certosino ad esse sottesa. E poi, non inscindibile, il sottile inganno non altrettanto facilmente rilevabile, anche perché con malizia protetto dalla massima segretezza in tutto e per tutto.
Opere generate ed elaborate con materiale autoprodotto, con contributi esterni per convergenza di intenti e scopi, carpiti tessendo con astuzia una rete parallela, senza mai scoprire le carte. Un disegno progettato nei minimi dettagli in modo da non restare intrappolati nelle trame intrecciate, delle quali gli esecutori – conoscendone l’architettura – riescono a scansare le insidie.
Proprio al pari del ragno che si allontana dalla seta filata, prevalentemente col favore del buio, restando raramente prigioniero della trappola tesa per la cattura della preda. E che soltanto di rado, prima di centrare l’obiettivo, finisce risucchiato, con la struttura rimasta a lungo inosservata, durante una qualche operazione di pulizia locale.
A smantellare le altre tele – gli intrallazzi escogitati da menti reputate sopraffini, più correttamente definibili “luciferine” – ci pensa il tessitore silenzioso e non appariscente per eccellenza: il tempo, che col suo occhio di lince scruta predatori e prede designate per un periodo senza scadenza prevista e prevedibile, come si fosse in un reality show senza fine programmata.
“Il tempo è galantuomo, rimette a posto tutte le cose”.
Finché non si avrà una qualche conferma in tal senso, nella piena di malvagità che coglie di sorpresa come un terremoto ci si aggrappa alla convinzione di Voltaire, che finisce con l’esercitare un effetto placebo, pur nella consapevolezza dell’inganno di un’illusione sposata per non farsi travolgere dall’ondata di delusione crescente.
Insomma: un inganno tira l’altro, lasciando al tempo l’onere di sbrogliare la matassa. E, mentre scorre inesorabile, restarsene per forza di cose spettatori con l’intima speranza, più che certezza, che: “Adda passà ‘a nuttata”.
Come se il tempo fosse l’agente operativo super omnes e super omnia e non, invece, il registratore di eventi che si sviluppano e si succedono sotto la regia dell’essere umano, il più delle volte impegnato a predominare sui suoi simili anziché a dominare la materia ricevuta in affidamento all’atto della cacciata dal paradiso terrestre, applicando la regola aurea del “seguir virtute e canoscenza”. (Inferno XXVI, 120)
L’essere umano, ad ogni buon conto, artefice del proprio destino. Chiamato ad un comportamento retto che è ciò che fa di lui un “galantuomo”, in grado di diradare ogni opacità – dopo corretto e onesto approfondimento – e di adoperarsi nel sanare inganni e situazioni di ingiustizie perpetrate, oltre che contro il suo essere, anche a danno di qualsiasi altro membro della collettività.
Il tempo è, dunque, una funzione della realtà in cui siamo immersi. Difficile imbrigliarlo in una definizione, nonostante le dissertazioni filosofiche di tutto rispetto in merito.
Ne rende bene l’idea Sant’Agostino, che al tema dedicò il Capitolo XI de “Le Confessioni”: «Se nessuno m’interroga, lo so: se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so». Riflettendo sull’irrealtà del tempo che cede all’esistenza di quel “nulla” che consente col suo evolversi di parlare di un presente che, non essendo eterno, si traduce di un passato che non è più e in un preludio del futuro che sarà il presente del poi (14,17). Cose che permettono di misurarlo esclusivamente “nello spirito”, al presente, attraverso le impressioni prodotte “al loro passaggio” e che perdurano “dopo il passaggio” (27,16).
Il tempo, a guardarlo sotto un’ottica sostanzialmente popolana, ci è dato per viverlo, imparando a saper leggere la quotidianità e gli eventi che ci svela.
Fra questi quelli che – forse soltanto, o soltanto inizialmente – in filigrana lasciano cogliere indizi, riferimenti e tasselli del puzzle scomposto di verità sfregiate, truccate e/o negate. Fatte scivolare in fondo al pozzo virtuale. Destinate, comunque, ad emergere nel corso del tempo in virtù della funzione genitoriale su tutto che gli riconosce il filosofo Francesco Bacone (Londra 1561 – 1626), e con il perfezionarsi del sapere che si viene via via costituendo con l’impiego dell’intelligenza e dell’esperienza acquisita.
Argomentazione sintetizzata nel proverbio: “La verità è figlia del tempo” (e “non dell’autorità”, egli puntualizza) che si fa risalire nella prima prova scritta ad Aulo Gellio, scrittore latino del II secolo d.C., nel “Noctes Atticae” (Liber XII -XI, 7).
“Alius quidam ueterum poetarum, cuius nomen mihi nunc memoriae non est, Veritatem Temporis filiam esse dixit” (Un altro degli antichi poeti, di cui ora non ricordo il nome, disse che la Verità è figlia del Tempo).
Se ne deduce l’impossibilità di datare con esattezza l’origine di questa sentenza proverbiale che, tuttavia, rivela l’unicità della concordanza sulla sostanzialità della questione.
Concordanza oltre ogni limite temporale e oggettivo. E nell’esigenza unanime, pur se a vario titolo, della conoscenza della verità nuda e cruda che, com’è ovvio, per i danneggiati dal suo occultamento e/o mistificazione, diventa di vitale importanza e lo scopo della stessa vita.
Per inciso: quanta pena a pena dei suddetti aggiunge la retorica del tutto fuori luogo profusa in esternazioni di vicinanza e compartecipazione a “battaglie” condotte per la ricerca della verità in “casi” – degni senz’altro di solidarietà e supporto incondizionato – verificatisi su territori fuori dal raggio di azione di chi moltiplica parole su parole su vicende del genere! Sollecitando per essi interventi di “verità e giustizia” che, purtroppo, per fatti di incredibile gravità accaduti “in casa” propria, e venuti alla luce nonostante la singolare e notoria cortina protettiva, restano ben lontano dal trovare una qualche risposta. E, neanche a dirlo, nemmeno la testimonianza concreta di non contraddittorietà fra parole e fatti, cioè: di coerenza.
«La parola – per Flaiano – serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia» (da: “Un marziano a Roma”).
Per schivare il malcelato rischio di restare fulminati per aver osato guardarla nella sua nudità, valutata ‘na vergogna’ da un ‘Pretozzo’ fra gli accorsi con corde e scale intorno al pozzo dal quale – secondo la descrizione di Trilussa – si era levato il grido d’aiuto della Verità, ormai sommersa dall’acqua fino ‘ar gargarozzo’, fu accolta col favore di tutti la proposta del prete “de coprilla un po’ per uno”.
In un battibaleno il pozzo si riempì dei più diversi indumenti lanciati dai presenti per risolvere pretestuosamente “un affare sconveniente” per addotti motivi di buoncostume, a danno dell’individualità della Verità. Che, infatti, uscita dal pozzo ricoperta da vesti non sue, non mancò di lamentare l’offesa subita, stornellando: “Fior de cicuta,
Ner modo che m’avete combinata
Purtroppo nun sarò riconosciuta!”
Passa il tempo. Cambiano e passano le generazioni. Non cambia e permane immarcescibile il dannato malcostume di tacitare ad ogni costo verità scomode, di falsare fatti e giudizi ad onta persino delle leggi e della giustizia, senza farsi scrupolo delle lesioni causate alle persone nella loro dignità, nei loro diritti fondamentali e nei loro beni individuali e materiali.
Operazioni spregiudicate condotte all’ombra dell’opportunismo per regolare i conti in faccende losche con condanne, diabolicamente truccate, a bere la cicuta.
Ma il tempo non passa invano e funge da cassaforte di tutto ciò che registra, pronto a restituire il dovuto al momento opportuno.
Sì: anche frammenti di verità nascoste e negate per periodi più o meno lunghi, interminabili per chi anela alla sua affermazione incontrastata.
A volte sbloccando i tasselli di un puzzle scomposto in precedenza da bramosie patologiche e contribuendo a ricostruirlo per effetto di azioni che spesso sono reazioni ad altre rigettate per motivi fra i più disparati e di solito insondabili, generati da “quel guazzabuglio del cuore umano”. O, semplicemente, grazie all’onestà morale e intellettuale di qualche galantuomo che pur sempre si distingue nel mucchio…
E, la sorpresa riserva il piacere del riscontro di una fattispecie di nemesi, con indizi di applicazione del contrappasso, che – pur non rispondendo (purtroppo!) ai codici della giustizia riparativa – regala un respiro di sollievo, una carezza all’animo gravato dal peso dell’ingiustizia e dello scippo subìti. Oltre che provato dalla lunga attesa dell’avverarsi dell’avvertimento: «… Guardatevi bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia. Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto». (Lc 12, 1-2)
Maria Michela Petti
03 settembre 2024