La fine ingloriosa di un autocrate
“Ozymandias è il mio nome, il Re dei Re:
guardate alle mie opere, o potenti, e disperate”
Ozymandias. Chi era costui? mi chiesi quando, in uno degli interminabili giorni di lockdown causa covid-19, incrociai questo a me sconosciuto personaggio proclamatosi “Re dei Re”, effettuando una delle tante ricerche sul Web che – in quell’occasione – mi indirizzava ad una pagina correlata includente la segnalazione dell’esortazione a “disperare” rivolta ai potenti.
Posto che: il Re dei Re per me è Uno solo – il Re dell’universo – al di sopra dei sovrani di questo mondo, Che – recita il “Magnificat” – «ha rovesciato i potenti dai troni», quella superba presentazione, accompagnata da quell’insolito accorato appello, mi incuriosì al punto da seguire il suggerimento del browser. Ben conscia delle tragedie vissute dall’umanità, nel corso della sua storia, in tempi successivi al cantico di Maria, a causa di non pochi tiranni e sopraffattori spuntati sotto insegne e vesti più o meno regali. Come è capitato a me in alcune vicissitudini, in momenti del genere, al credente non resta che confidare nel contributo determinante del Signore per la detronizzazione del prepotente di turno.
Orbene, distraendomi per un po’dalla ricerca che stavo conducendo, mi ritrovai a leggere un sonetto di Shelley che ignoravo, rilanciato peraltro da qualche film e serie tv americani, rimasti però fuori dalla mia conoscenza. In quei versi: la lezione a memoria imperitura sul destino riservato ai superbi, condannati ad essere ricordati esclusivamente per la loro disumanità, come dalle scarse tracce dell’esistenza di uno di essi, rinvenute nella sabbia del deserto e descritte al poeta da un viandante per caso.
E così scoprii che Ozymandias altro non è che il soprannome del “fu Grande” faraone dell’impero egiziano, Ramses II, di cui tutto ciò che resta è appunto quell’epigrafe incisa sul piedistallo di una statua a lui dedicata, ma ridotta in frantumi, fra i quali si scorgono soltanto «due immense gambe di pietra prive di tronco» e un volto, seminascosto nella sabbia, che mostra intatti «il cipiglio e il corrugato labbro, e il ghigno di freddo comando».
Fuor di metafora, Shelley fotografa la stessa crudeltà impressa dallo scultore nelle fattezze del volto del “fu” potente e la sua fine ingloriosa. “Passioni” ben lette e immortalate dall’artista, che sopravvivono «alla mano che le raffigurò e all’anima che le nutrì», «su questi oggetti senza vita», dispersi nella vastità di “sabbie solitarie”, che si estendono «attorno al decadimento di quel colossale relitto, sconfinato e nudo».
Sempre in modalità artistica, sebbene diversa nell’espressione, il poeta convalida a perenne memoria: «Null’altro rimane». Di un super-ego caduto dal piedistallo, non sfiorato dalla rovina, che, come la spada di Damocle, pende sul capo dei suoi simili, ai quali è indirizzato l’avvertimento dell’epigrafe non usurata nel tempo.
Degli abusatori del potere non sopravvive che il ricordo impietoso legato agli effetti infausti del loro delirio di onnipotenza. Parabola di vite vissute nella pienezza di sé e sgretolatesi nell’impatto inevitabile con la finitezza dell’autocrazia, infine affossate nella polvere. Nella colpevole dimenticanza dei destini dell’umanità:
«Tutti sono diretti verso la medesima dimora:
tutto è venuto dalla polvere
e tutto ritorna nella polvere». (Ec 3,20)
Maria Michela Petti
26 febbraio 2022