Fra quelle lettere inviate al Presidente della Repubblica…
Nel lancio pubblicitario che ha preceduto la messa in onda del programma tv “Caro Presidente”, in prima serata su RAI3, ieri – 2 giugno – Festa della Repubblica, si poneva l’accento sul “rapporto diretto” che “con le loro lettere, hanno scelto di avere” con il Capo dello Stato gli italiani che gli hanno scritto per raccontargli le loro storie, i loro sogni, le loro speranze.
Essendo pochi i casi, a nostra conoscenza, in cui all’invio di una lettera da un qualsivoglia perfetto sconosciuto cittadino italiano abbia corrisposto uno scambio epistolare o intervento concreto, mi era suonata alquanto forzata l’interpretazione dello spot televisivo e la visione del documentario ha rafforzato la mia impressione, non essendo riuscita a cogliere quel “rapporto diretto” pubblicizzato, almeno per come ne intendo un’instaurazione così definita.
Le lettere, tratte dall’ Archivio del Quirinale dove (nei contenitori mostrati ben allineati su lunghe file di scaffali) si riordina la corrispondenza ivi pervenuta – nel corso della trasmissione di ieri sera, lette, commentate ed arricchite da aneddoti personali degli autori selezionati fra quelli viventi, che si sono fatti interpreti (per un motivo o per l’altro) del comune sentire del popolo italiano al tempo e di fronte ad eventi che hanno segnato in modo particolare la storia del nostro Paese, nei decenni più vicini a noi, hanno fatto da colonna sonora alla rivisitazione di episodi e fenomeni ripresentati attraverso spezzoni audiovisivi conservati nelle collezioni delle Teche Rai, privilegiando – come è giusto che sia – il racconto del ruolo, importante e determinante, esercitato in ogni circostanza dal Presidente della Repubblica di turno.
Senza nutrire l’illusione di ottenere un qualche risultato, e spenta ogni segreta speranza in tal senso, per la perfetta conoscenza dei lacci e lacciuoli che condizionano i rapporti fra l’Italia e lo Stato estero – sui generis – che è stato teatro della triste vicenda in cui siamo rimasti invischiati, anch’io ho scritto al Presidente Mattarella.
Ho scritto non una, bensì tre volte, alla più alta carica istituzionale del mio Paese, che rappresenta tutti i cittadini italiani, anche quella fetta consistente (6 milioni, a quel che mi risulta) dei residenti all’estero – in cui sono fiera di essere annoverata con i miei figli – menzionati nei Messaggi pubblici da ogni Presidente, in ogni ricorrenza particolare.
E l’ho fatto ben prima di ascoltare il passaggio del discorso di Mattarella al Parlamento del 3 febbraio scorso, nel giorno del giuramento per l’inizio del suo secondo mandato, nel corso del quale ha rivolto il suo pensiero «a tutte le italiane e a tutti gli italiani…in particolare, a quelli più in sofferenza, che si attendono dalle istituzioni della Repubblica garanzia di diritti, rassicurazione, sostegno e risposte al loro disagio». Pur pienamente consapevole – lo ribadisco – di non poter attendermi nulla di tutto questo.
Ma, semplicemente per il bisogno più che legittimo di far varcare la soglia, anche e soprattutto, di quella che è considerata la “casa degli italiani”, dalla nostra “storia”, certa che qualcuno l’avrebbe letta e, forse, chissà, protocollata – avendo scelto per le prime due spedizioni (nel 2020; con Allegati alla narrazione, per sommi capi, del “caso”) la forma di posta Raccomandata (accertabile nella foto, anche se scarsamente leggibile, a corredo del presente Post), consegnata regolarmente come da prova “tracciamento” – o in chissà con quale altra modalità registrata, per quanto riguarda la terza (nel 2021) inviata per posta elettronica, confermandone l’invio secondo le indicazioni ricevute dal Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica.
Va da sé, quindi, che si debba escludere l’ipotesi di una benché minima traccia di ingenuità alla base di questa mia decisione, portata avanti invece con la determinazione scattata nella notte in cui si diede il via alla gogna mediatica, durante la quale assunsi – in primis con me stessa – l’impegno a reagire in maniera dignitosa, con coraggio, lucidità ed equilibrio, ad un disegno surreale e inaccettabile. Impegno reso pubblico attraverso la Lettera Aperta al Papa da me firmata in quelle stesse, interminabili, ore di incredulità e nel turbinio di pensieri e sentimenti contrastanti, che ero riuscita faticosamente a trattenere per una settimana, a partire dal giorno in cui era stata emessa la “condanna” verbale. Impegno cui sto tenendo fede senza mai cedere allo sconforto, che pure in alcuni, frequenti, attimi ho attraversato, soprattutto a causa di notizie acquisite via via, per caso e dalle cronache (queste ultime: a getto continuo), che non hanno favorito – e non favoriscono – il riconoscimento di quanto accaduto come un “errore”, ad ogni modo ingiustificabile e soprattutto imperdonabile.
Impegno dal quale non intendo demordere, per tutto quanto è nelle mie possibilità. Nonostante la convinzione mia personale, di interlocutori di vecchia data e di coloro con cui sono entrata in contatto proprio nel far fronte all’impegno di cui mi son fatta carico, di un combattimento contro inconfondibili mulini a vento. E, per quanto riguarda la sacrosanta aspirazione alla giustizia, dall’esito facilmente prevedibile, magistralmente delineato nella seguente favola in rima dal celebre poeta in dialetto romanesco Trilussa.
La giustizia aggiustata
Giove disse a la Pecora: – Nun sai
quanta fatica e quanto fiato sciupi
quanno me venghi a raccontà li guai
che passi co’ li Lupi.
E’ mejo che stai zitta e li sopporti.
Hanno torto, lo so, nun c’è questione:
ma li Lupi so’ tanti e troppo forti
pe’ nun avé raggione!
Tuttavia, come sto dimostrando da quel dì: sopportare in silenzio non è da me. Anzi: non lo è mai stato. E lo rivendico senza paura alcuna. Con la sola differenza che … prima… non ero stata costretta all’esposizione … forzata… molto lontana dalle mie abitudini e tendenze caratteriali, che limito decisamente alla sola scrittura.
Tant’è… ho raccolto la sfida senza lasciarmi intimidire dalla sua portata colossale e la sto fronteggiando, rimanendo a distanza di sicurezza dal confine proprio della visibilità e del presenzialismo.
Maria Michela Petti
03 giugno 2022