A lezione dal giudice di Berlino
“C’è – o: ci sarà pure! nella formulazione di una speranza – un giudice a Berlino”.
Un modo di dire conosciuto soprattutto fra studiosi e appassionati di materie giuridiche e attribuito a Berthold Brecht; la citazione, però, non figura in alcuna delle sue opere. Particolare questo ritenuto irrilevante da Umberto Eco rispetto alla vicenda cui viene collegata l’espressione che esteriorizza corroborandolo il sentimento di fiducia nella giustizia che, alla fin fine – come il fatto dimostra – trionfa comunque, senza discriminazioni di status. Aforisma di uso corrente per esorcizzare l’errore umano, purtroppo non trascurabile, se non addirittura in qualche caso estremo pervicacemente insoluto, nonostante l’evidenza di indizi che dovrebbe indurre ad un onesto riesame dell’affaire.
Si pensa a Berlino e la mente corre immediatamente alla sua relazione con il Muro. Un fatto storico che è e rimarrà impresso nella memoria collettiva di ogni epoca. E non potrebbe essere diversamente.
Ma: anche l’origine del detto citato risale ad una “storia” vera e documentata, una storia senza tempo di natura giudiziaria. Riguarda le vicissitudini di un uomo “comune”, un mugnaio, vittima dello strapotere di alcuni aristocratici del tempo (si era nella seconda metà del Settecento) che, senza arrendersi e nella ferma convinzione di riuscire a trovare un giudice imparziale che avrebbe sanato l’ingiustizia subita, insistendo nel presentare la sua istanza passando da un tribunale all’altro, arrivò fino a quello della capitale germanica dove – finalmente! – il contenzioso si concluse a suo vantaggio.
Proprio come in una fiaba per la “buona notte”, la narrazione a lieto fine della disavventura di Arnold – questo il nome del protagonista – inizia con il classico «C’era una volta» per la gioia dei bambini tedeschi cui viene raccontata insieme ad altri aneddoti formativi. E costituisce un punto di riferimento per l’animo del bambino che sopravvive allo scorrere del tempo in ogni uomo, di ogni nazionalità, specialmente nel momento in cui più forte avverte il bisogno di credere alla morale del resoconto delle fasi processuali descritto da Emilio Broglio, ne “Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande” (Roma, 1880).
Non molto lontano da Berlino, a Potsdam, e nei pressi del famoso Castello di Sanssouci – dimora di Federico II di Prussia, che desiderava una vita senza preoccupazioni: sans-souci – era situato il mulino gestito da Arnold che, un bel giorno, finì col trovarsi nell’impossibilità di farlo funzionare e quindi di pagare le tasse al suo proprietario, perché per interessi personali e paesaggistici dai signori del posto erano state fatte deviare le acque che lo avevano sempre alimentato. Citato in giudizio e condannato dal giudice di zona, il mugnaio fu costretto a rinunciare ai locali dove aveva svolto la sua attività, determinato però a non rinunciare al diritto violato di vivere del suo lavoro.
Ebbe inizio così il lungo calvario di Arnold attraverso le corti di giustizia da una città germanica all’altra. «Furono a vario titolo coinvolti ben 14 (!) gradi/istanze di “giudizio” dinanzi a varie autorità amministrative e giudiziarie», sottolinea in uno scritto per “Giustizia insieme” on line, dedicato all’analisi del “caso”, l’avvocato pistoiese Maurizio Bozzaotre.
“14”: come il numero delle Stazioni della Via Crucis. Tuttavia: se non poté sfuggire a giudici corrotti dal sistema di potere dell’epoca, che riuscì a corrompere anche gli avvocati a cui il malcapitato mugnaio aveva affidato la sua difesa, si salvò almeno dalla tendenza – che si è andata largamente diffondendo col tempo – a dare la stura a processi mediatici con annessi e connessi, che aggravano le conseguenze di sentenze in troppi casi nemmeno emesse nelle aule dei tribunali.
In ultima istanza, a Berlino, la revisione degli atti processuali concernenti la complessa e complicata vicenda fu presa in carico dal giudice supremo, cioè da Federico il Grande, proprio dal Re nel cui nome veniva amministrata la giustizia, “despota illuminato” passato alla Storia per l’avvio, tra le altre riforme istituzionali, di quella del sistema giudiziario.
Fu lui a mettere fine al controverso procedimento a carico del mugnaio di Potsdam e, acclarata l’ingiustizia di cui era rimasto vittima, lo reintegrò nei diritti perduti e dispose il carcere per i giudici corrotti, condannandoli anche a risarcirlo dei danni subiti.
Pur non nascondendo tratti comportamentali tipici di un monarca assoluto, Federico il Grande si schierò decisamente a favore di una politica basata sui principi del diritto naturale e a difesa dei criteri della giustizia, contestando apertamente la tentazione del machiavellismo nell’esercizio del potere.
Sul punto, nella sua opera “Anti-Machiavel” (1739), che Voltaire nell’anno successivo pubblicò in Belgio con qualche modifica non sostanziale, è categorico. «È dunque la giustizia, si sarebbe detto, che deve rappresentare lo scopo principale di un sovrano, è dunque il bene dei popoli che governa che egli deve anteporre a qualsiasi altro interesse. A cosa portano allora tutte quelle idee di interesse, di grandezza, di ambizione e di despotismo? Possiamo concludere che il sovrano, ben lungi dall’essere il padrone assoluto dei popoli che sono sotto il suo dominio, per quel che lo concerne non ne è che il primo servitore».
Lapidaria, infine, la sentenza: «La storia dovrebbe eternare solo il nome dei principi buoni e far cadere nell’oblio quello dei malvagi, con la loro indolenza, i loro delitti e le loro ingiustizie».
A margine della mia riflessione, stralcio dall’intervista – di ieri, 6 settembre – per il blog “Confini – RaiNews”, di Pierluigi Mele a Riccardo Larini, autore del libro di fresca pubblicazione “Bose. La Traccia del Vangelo”, l’esplicita considerazione che ritengo pertinente e applicabile ai “casi” di “misericordia” extragiudiziale, diventata negli ultimi anni prassi corrente, in ambito ecclesiale, e di cui nemmeno ci si scandalizza più.
«Nessuna autorità al mondo, neppure quella di un pontefice per un cattolico, può giustificare provvedimenti così duri, immediati e inappellabili senza alcun processo, senza contenzioso e senza spiegazioni dettagliate. A prescindere da come la si pensi sul conflitto esploso a Bose, non si può accettare una modalità di giudizio e di intervento che non ha tenuto in alcun conto i diritti degli “imputati” (che non sono stati neppure tali, in quanto sono passati direttamente allo status di “condannati”)…
Nessuna chiesa può essere veramente evangelica se non persegue fino in fondo la verità e non rispetta radicalmente la dignità di ogni persona, che ha diritti inalienabili».
Maria Michela Petti
07 settembre 2021